(di Elisabetta Tosi) L’Alentejo è una regione dal fascino sottile. Lontana dall’effetto “wow!” che può strappare uno dei  paesaggi mozzafiato della zona del Douro, si presenta piuttosto come una rilassante distesa a perdita d’occhio di pianure leggermente ondulate, punteggiate da maestosi esemplari di quercus subera, l’albero del sughero, foreste di olivi, vigneti ben disegnati e piantagioni di mandorli. Qui tutto appare dilatato. Il tempo, le distanze. Gli spazi infiniti solo occasionalmente interrotti da villaggi dalle tradizionali casette basse imbiancate a calce e con tetti invariabilmente di cotto rosso. In questa regione portoghese il cui nome significa “oltre il fiume Tago” e che copre oltre un terzo della nazione, si trovano alcune eccellenze storiche, turistiche e produttive che meritano più di un passaggio distratto.

Una di queste è Herdade do Esporão, a Reguengos de Monsaraz, non distante da Evora, la cittadina più importante della regione. Qui siamo nel Baixo Alentejo, in una zona la cui storia affonda le radici nel Paleolitico per poi risalire nei secoli attraverso le vicende di molti popoli (Romani e Musulmani inclusi). Per la definizione di quello che sarebbe diventato l’Alentejo, un anno importante fu il 1232, quando con la Reconquista di Monsaraz e Reguengos, vino e olio d’oliva divennero un elemento identificativo della regione. I confini geografici dell’Herdade (tenuta) do Esporão (originariamente Defesa do Esporão) furono stabiliti nel 1267 e da allora sono rimasti praticamente immutati.

Nel tempo la tenuta cambiò mano molte volte, e uno dei suoi proprietari, Morgado D. Álvaro Mendes de Vasconcelos costruì la bianca torre che anche  ai nostri giorni ne è il simbolo.

Oggi la proprietà – acquistata nel 1973 da José Roquette e Joaquim Bandeira –  si estende su circa 700 ettari coltivati a vigneto, oliveto, frutteto e ortaggi, e negli ultimi anni si è ampliata con altre due aziende: Quinta dos Murças nella regione del Douro, e Quinta do Ameal in quella del Vinho Verde.

Oltre che all’enoturismo, le porte della proprietà sono aperte anche agli scambi e alla ricerca scientifica, come spiega il direttore Antonio Roquette: “Il nostro vigneto ospita 40 diverse varietà uve, e abbiamo numerose partnership con enti di ricerca e università. Uno dei nostri filoni di studio è l’osservazione delle cultivar ai cambiamenti climatici, per capire quali vitigni si prestino meglio alle nuove condizioni. Com’era abbastanza facile prevedere, le uve che se la stanno cavando meglio sono quelle autoctone”. Tra le pratiche agricole adottate c’è il ricorso ai pipistrelli: scoperti utili alleati nella lotta contro le tignole delle olive, dal 2010 sono graditi ospiti, con tanto di casette poste a loro disposizione negli oliveti, al punto che sono arrivati a censire ben 6 diverse specie di questi mammiferi con le ali.

L’Alentejo è una terra ricca di biodiversità, ma a tratti ostile per l’agricoltura. Il suolo è povero d’acqua, le temperature sono estreme: d’estate durante il giorno si superano anche i 40 gradi. In Esporão l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente e la sostenibilità è a 360 gradi: tutte le pratiche agricole sono biologiche o biodinamiche, e il suo ristorante utilizza solo ingredienti biologici e locali, coltivati nella proprietà o acquistati da produttori dei dintorni. Una scelta che nel 2021 le ha guadagnato la prima stella Michelin, e la  prima “Green Star” Michelin attribuita ad un ristorante portoghese.

All’enoturista che arriva in questo centro, oltre alla visita alle suggestive cantine tradizionali e a quelle di più recente ristrutturazione, vengono offerte numerose possibilità di esplorazione dell’ambiente e dei sapori del luogo: degustazioni di olio d’oliva con visita al frantoio dove vengono lavorate le olive della tenuta, degustazioni di vino, passeggiate a piedi o in bicicletta. Alla fine, una sosta è d’obbligo: si tratti solo di un aperitivo al wine bar, dove è possibile provare anche la loro birra artigianale, o di un pasto presso il ristorante, l’esperienza dello slow lifestyle alentejano non potrebbe dirsi completa senza un assaggio di qualche piatto tipico, come la sopa de cação (zuppa di pesce), il cozido à portuguesa (stufato di carne con verdure), il bacalhau (baccalà) o il porco preto (maiale nero dell’Alentejo, che gli spagnoli chiamano Pata Negra).

Senza, ovviamente, dimenticare il vino: bianco o rosso, affinato in legno, acciao, o talha (terracotta), in Alentejo è in prevalenza frutto di uvaggi di più varietà. Come l’Italia, il Portogallo vanta un patrimonio ampelografico di oltre 300 varietà autoctone, e nei secoli ha imparato a combinare molte di loro per ottenere vini d’inconfondibile carattere. Anche per queste affinità, quando da appassionati di vino italiani si viaggia in Portogallo, non ci si sente del tutto stranieri.