(di Elisabetta Tosi) Sono almeno 50 anni che “gioca” con le bolle, e a quanto sembra ha tutte le intenzioni di continuare a farlo per chissà quant’altro tempo.  Perché, come dice lui, “non c’è niente di più sano della passione”, e quella di Mattia Vezzola per il vino, in particolare quello con le bollicine, è una passione che parte da lontano.

Era l’estate del 1972 – racconta il celebre enologo – Appena diplomato in enologia a Conegliano, feci il mio primo viaggio in Champagne; Mini Cooper, una tenda canadese, un compagno di viaggio e tanta voglia di domandare. All’arrivo, un impatto infinito di vigne immacolate ed allineante a creare un paesaggio inusuale.

Nelle prime visite la sorpresa dell’utilizzo di una tecnologia tradizionale: vendemmia manuale, presse Marmonier e fermentazione dei mosti in piccole botti da 205 litri in rovere bianco. Mi sono sentito in quel momento portatore di innovazione, perchè a Conegliano invece erano già arrivati i primi segnali di un materiale nuovo: l’acciaio inossidabile, sinonimo di igiene profonda e tecnologia innovativa.

Ma quando abbiamo potuto degustare quei due bicchieri di champagne rimasti in bottiglia dalla serata precedente, il nostro respiro si è fermato. A distanza di 12 ore, il vino – senza gas, caldo di temperatura – aveva mantenuto intatta e perfetta la consistenza della sua identità. Quella degustazione mi ha convinto che non abbandonare le origini mi avrebbe permesso di rimanere costantemente in avanguardia.”

Da quell’esperienza illuminante sarebbe nato, l’anno dopo, il “Mattia Vezzola Metodo Classico”, da uve Chardonnay e Pinot Nero, il primo di una lunga serie di spumanti di successo che l’avrebbero reso nel tempo non solo uno dei consulenti più apprezzati (è stato per anni l’enologo di Bellavista, in Franciacorta) e uno dei professionisti più premiati dalla critica nazionale ed estera, ma anche un convinto e convincente testimone dell’originalità di una terra, la Valtènesi, dove si trova la sua azienda, Costaripa.

Da qui escono non solo straordinari metodi classici, ma anche rossi e rosati di altrettanta inconfondibile personalità. Effervescenze a parte infatti, l’altra grande passione di Vezzola sono i vini rosa, perché, dichiara, “il rosa non è un vino, ma un modo di vivere, che dipende essenzialmente dalla bellezza del paesaggio in cui si vive. Questa zona è un pezzo di Mediterraneo a ridosso delle Prealpi, con una climatologia rarissima, mediterranea appunto.

Fateci caso: Provenza e Valtenesi sono le uniche due aree geografiche al mondo che piantano vitigni a bacca rossa per fare vini rosa. Ed entrambe hanno un sacco di belle storie di raccontare, perché se in Provenza ha vissuto una parte della storia francese, in questa parte d’Italia abbiamo avuto Catullo e D’Annunzio”.

Mattia Vezzola, RosaMara e Molmenti in degustazione

Un assaggio delle potenzialità di questa parte del lago di Garda si possono avere con i vini che seguono, che abbiamo avuto la fortuna di degustare insieme al loro produttore:

RosaMara Valtenesi 2022: il Chiaretto di questa sponda del lago nasce da un blend di Groppello (in prevalenza), Marzemino, Sangovese e Barbera nasce un vino con un bellissimo colore rosato-perlaceo, profumi dolci di agrumi rossi, pesca bianca  e piccoli frutti rossi molto maturi. In bocca è ugualmente fruttato e succoso e fresco, affilato, con una  rinfrescante nota di menta.

Anche il Molmenti Valtenesi 2018 è un rosato, fatto con le stesse uve provenienti però da un solo vigneto di pochi ettari e oltre 50 anni di età. Nel bicchiere appare di un delicato ma lucido color rosa cipria, i profumi sono ampi e variano con il cambiare della temperatura, spaziando dalle note di pasta di mandorle e agrumi rossi alle erbe di campo con una sfumatura di spezie dolci. Il gusto è coerente,  setoso, fresco, e molto persistente.

Il suo fratello maggiore, un Molmenti Valtenesi 2011, è la dimostrazione della longevità di cui possono essere capaci certi vini a torto considerati “fragili”: il colore è analogo al precedente ma più intenso, avendo acquisito col tempo anche delle sfumature dorate, al naso è perfino più dolce, ricorda un pout-pourri di fiori secchi e camomilla. L’assaggio restituisce  un vino ancora più rotondo e goloso, di quella dolcezza priva di zucchero che i francesi chiamano sucrosité, con note che ricordano cioccolato bianco e mandorle amare. Un vino, come i precedenti, facile da abbinare,  ma che si beve molto volentieri anche da solo.