In occasione della consegna del “Premio Mattia Trivelli” farà la sua prima uscita “ufficiale”, con il logo comunitario in etichetta, la Pitina che dal 2 luglio scorso (data della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea) è entrata a far parte delle eccellenze gastronomiche tutelate con la IGP (Indicazione Geografica Protetta). Le Valli Pordenonesi (più precisamente Val Tramontina, Valcellina, Val Colvera) custodiscono infatti orgogliosamente un piccolo tesoro della gastronomia dei tempi andati: la Pitina (chiamata anche, a seconda della vallata, Peta, Petina o Petuccia).
Un prodotto unico, per il quale non esistono termini di paragone. Per spiegarlo, bisogna ricorrere all’esempio della classica “polpetta”, anche se di dimensioni un po’ più grandi.
La Pitina è fatta di carne magra di capra, pecora o montone (un tempo si usava anche quella di ungulati selvatici: cervo, daino capriolo) tritata e impastata con una concia di sale, pepe, finocchio selvatico o altre erbe, che viene pressata a forma appunto di polpetta, passata nella farina di mais (quella da polenta) e quindi fatta affumicare; un tempo nel camino di casa (il fogher o fogolar), oggi in apposito affumicatoi dove rimangono 3-4 giorni.
Le “pitine” costituivano un tempo la “riserva” di carne, un modo per far durare anche per mesi, la fortuna di un colpo di fucile ben assestato (spesso la materia prima proveniva dalla caccia di frodo) o la disgrazia di una bestia – capra o pecora – che bisognava macellare dopo che si era ferita cadendo da un dirupo.
Oggi la Pitina è una squisitezza ricercata dai buongustai: consumata cruda, affettata sottile, o cotta nel tradizionale piatto che la vede accompagnata dalla immancabile polenta.